Il desiderio di ritorno nella terra d’origine prende qui la forma di un viaggio spirituale in Sardegna, al seguito di una carovana di artisti di strada. Ma la terra anelata mostra presto ai viandanti le sue cicatrici profonde e i suoi incubi: incontro dopo incontro, il presunto ritorno si fa esodo, cammino in una terra remota guidato dalle tracce di resistenza umana.

In concorso al festival CINEMAMBIENTE
DOMENICA, 2 GIUGNO, ORE 22.00
CINEMA MASSIMO, TORINO

Note di regia
Il desiderio di tornare nella mia terra di origine, lasciata tanti anni fa. La necessità di approfondire le ragioni di un non meglio definibile “senso di appartenenza”, ciò che resta dopo il distacco. Quasi inconsciamente, mi sono ritrovato a cercare queste ragioni tra le diverse forme di resistenza della gente della mia isola, resistenza allo sfruttamento del territorio, a ritmi di vita non condivisi. Negli incontri ho cercato fiammelle di energia pura, in prossimità della natura e col pensiero rivolto agli antenati.
Per compiere e raccontare questa indagine ho scelto l’erranza e mi sono servito di uno sguardo altro, quello di una carovana di artisti di strada, in viaggio con carrozza e cavalli, per incontrare donne e uomini “resistenti”. Da questi incontri è nato qualcosa di nuovo: un esperimento che ha fissato un’immagine sedimentata dentro di me, un’idea del luogo delle mie origini.
Gli spettacoli e la musica hanno accompagnato la discesa all’interno della montagna, l’avvicinamento a una spiritualità legata alla terra e al mare, gli incontri con i resistenti/residenti come Emiliano, che ci porta a un difficile abbraccio ai resistenti/migranti: proprio la loro condizione surreale porta gli artisti ad aprirsi: così Rasid, marionettista rom bosniaco, fuggito quand’era bambino dalla Jugoslavia in guerra, passando per i campi rom; Carlos, cileno sbarcato in Italia a sei anni per fuggire la dittatura di Pinochet. L’ultimo dei resistenti, Erwin, è cileno anche lui, condannato a morte da Pinochet e ancora combattente sull’isola dove vive da trent’anni.
Il mio desiderio di ritorno si è sfaldato, si è trasformato: forse non c’è nessun ritorno possibile, la mia terra d’origine appartiene a quelli che la difendono, a quelli che resistono, a quelli che sono di passaggio ma tengono ben saldi i loro padri sulle spalle.

Regia di Giuseppe Casu

Con Juan Carlos Cid Esposito, Manuela Almonte, Clemente Pozzali, Rasid Nikolic, Maurizio Guzzi, Benjamin Newton, Beppe Puso,
Tore Casanova, Angelo Cremone, Emiliano Vargiu, Chiara Vigo, Erwin Ibarra e gli ospiti dell’antas hotel: Fred, Mamadou, Mannan, Mamun, Promise, Omar, Lassana, Margret, Blessing, Sandra, Ousmane, Tamsir, Sopikul

Produzione
Tratti Documentari, Sitpuntocom sas, Istituto Superiore Etnografico della Sardegna ISRE
in collaborazione con la Babbrica del cinema – Carbonia
con il sostegno di Fondazione Sardegna film commission

Fotografia: Andrea Di Fede, Yukio Unia, Nanni Pintori
Montaggio: Aline Hervé
Suono in presa diretta: Paolo Lucaferri, Gianluca Stazi
Montaggio del suono: Gianluca Stazi
Mix: Riccardo Spagnol
Post Video: Filippo De Nicola, Mauro Zezza

Organizzazione: salvo accorinti, monica grossi, fabio dongu
Location manager: Fabio Dongu – associazione Sonebentu

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Contatti: info@tratti.org

Recensione di Sara Galignano per Cinemaitaliano.info

Il-presagio-del-ragno-WEB

Il presagio del ragno” è un poema in bianco e nero: lirico e narrativo insieme.

Con costanza e dedizione, il regista Giuseppe Casu segue per una stagione (febbraio-luglio) i lavori di allestimento di una tonnara fino all’epilogo che prevede la pesca dei tonni rossi nel mare di Sardegna.

Grazie a una notevole qualità artistica ed empatica dello sguardo, la visione del documentario consente un’immersione quasi fisica nella ritualità legata al millenario mestiere del tonnarolo (continuamente a “rischio estinzione”), dove distanza e prossimità dell’obiettivo si alternano continuamente. L’inquadratura a volte si restringe su singoli gesti del lavoro (una mano, un pennello, poche maglie di una catena); in altre occasioni si allarga al gruppo, e in questi casi l’intensità del ritmo e il coordinamento dei movimenti conferiscono alle immagini una componente quasi teatrale (quando si tratta delle operazioni di rilascio di palloni, ancore e reti dirette dal “rais”, ma soprattutto quando il gesto ritmato e indimenticabile di decine di mani che allacciano i nodi delle reti riempie gli occhi con l’incedere di una danza).
Ed è come se fossimo quasi lì con loro, nascosti dietro ai numerosi oggetti che il regista sovente mette in primo piano, costruendo così una profondità di sguardo che si allinea su diverse prospettive, una delle quali è la nostra. Così entriamo in gioco.

Visto il contesto quasi atemporale della narrazione (che vuole suggerire la continuità di un ruolo più della sua attualità) la scelta del bianco e nero non stupisce (anche se – o forse soprattutto – raggiunta dal regista lavorando per sottrazione dal colore): dal bianco lattiginoso dei cieli iniziali, che avvolge i protagonisti in una dimensione che sembra lontana nel tempo (ma in parte anche nello spazio), alla stasi finale, dove la tonnara vuota e abbandonata viene cullata dall’immensa distesa marina, che nel grigiore diffuso trasmette un senso di abbandono e desolazione, di quiete dopo la tempesta, di tutto ciò che l’azzurro del mare non sarebbe stato in grado di evocare così bene.

Una riflessione a parte merita l’efficacissima colonna sonora: sempre opportuna, in grado di fare un passo indietro come di invadere lo schermo. In gran parte originale, con l’utilizzo di un’elettronica d’atmosfera dai suoni materici, a volte accompagnata da suoni gutturali che evocano i canti dei cori maschili sardi, lascia spazio alla radio in un momento centrale della narrazione, e ai rumori d’ambiente quando la necessità è dare un ritmo e un’intensità che solo la vita vera sa trasmettere. Perla assoluta la scelta sonora che accompagna il climax finale verso quella che dovrà essere la cattura dei tonni: come in un girone dantesco l’uomo diventa figura mitica e il rituale diventa un valore assoluto, tanto da rendere inutile la conclusione più scontata.

In ultimo, due parole sul titolo, che il regista stesso commenta come un’immagine che, sempre più persistente, si è insinuata nella sua mente nel rivedere le immagini durante il montaggio: il ragno (tessitore di reti) che ha il presagio (per definizione cattivo) di una rete vuota, di una pesca inutile, di una cattura impossibile.

09/10/2015
Sara Galignano