Storia mineraria della Sardegna

La storia dell’estrazione dei metalli in Sardegna, e dunque del lavoro in miniera, rimonta a epoche molto lontane. I commercianti avevano l’abitudine di frequentare le coste dell’isola, attirati dalle ricchezze del sottosuolo sardo. La lunga storia mineraria della Sardegna ha inizio verosimilmente intorno al sesto millennio a.C. con l’attività di estrazione dell’ossidiana, alle pendici del Monte Arci, nella parte centro-occidentale dell’isola. Il Monte Arci fu uno dei più importanti centri mediterranei di estrazione e lavorazione di questa roccia vulcanica. In quest’area, infatti, sono stati individuati almeno settanta centri di lavorazione e circa 160 insediamenti stabili o temporanei dai quali l’ossidiana veniva poi esportata verso la Francia meridionale e l’Italia settentrionale.

La posizione geografica dell’isola, ma anche il suo patrimonio minerario, attrassero tra il X e l’VIII secolo a.C. i mercanti fenici, ai quali, attorno alla metà del VI secolo, subentrarono i cartaginesi. Fenici e cartaginesi sfruttarono intensamente le ricchezze minerarie, soprattutto nell’Iglesiente, dove sono state rinvenute tracce di escavazioni e scorie di fusione attribuibili a questo periodo.
Nel 238 a.C. inizia in Sardegna l’epoca della dominazione romana. Sotto i romani l’attività mineraria crebbe intensamente, soprattutto per quanto riguarda i ricchi giacimenti di piombo e d’argento. Fin dal 269 a.C. la repubblica romana aveva adottato l’argento come base monetaria, mentre il piombo veniva utilizzato nei più svariati campi della vita civile, dalle stoviglie alle condutture dell’acqua. La Sardegna, dopo la Spagna e la Gran Bretagna, costituiva la terza regione, tra i domini di Roma, per quantità di metalli prodotti. La produzione mineraria durante tutto il periodo della dominazione romana è stata valutata in circa seicentomila tonnellate di piombo e mille tonnellate d’argento. L’attività estrattiva dei romani non si limitò solo al bacino dell’Iglesiente. I sistemi di coltivazione delle miniere, in epoca romana, consistevano nello scavo di pozzi verticali profondi anche oltre cento metri; i lavori erano condotti, servendosi di soli utensili manuali e talvolta del fuoco per disgregare la roccia, da minatori liberi, detti “metallari”, e dal 190 a.C. circa da schiavi e prigionieri detti “damnati ad effondienda metalla”. In tarda epoca romana la produzione mineraria sarda diminuì considerevolmente.
In seguito alla caduta dell’impero romano d’occidente, l’isola cadde sotto il dominio bizantino, sotto il quale la produzione mineraria e l’attività metallurgica registrarono una certa rinascita. L’argento tornò ad essere uno dei principali prodotti d’esportazione della Sardegna. Dal 1087 vi fu il predominio di Pisa su tutta la Sardegna. Dal punto di vista della storia mineraria il periodo pisano è molto ben documentato. Fu determinante la nascita e lo sviluppo del centro abitato di Villa di Chiesa, l’attuale Iglesias. I pisani ripresero i lavori abbandonati dai Romani aprendo numerose fosse e riportando alla luce gli antichi filoni. L’intensa attività estrattiva, cosi come la vita politica economica e sociale, venne disciplinata mediante una serie di leggi, raccolte in un codice suddiviso in quattro libri conosciuto con il nome di Breve di Villa di Chiesa.
Negli anni intorno al 1326 Pisa perse i suoi domini in Sardegna a favore della corona di Aragona. Sotto la dominazione aragonese prima e spagnola poi, l’attività mineraria conobbe una continua decadenza; la Sardegna che per secoli era stata tra le più importanti aree di produzione dell’argento finì per importare il prezioso metallo il quale ormai arrivava in ingenti quantità dai possessi spagnoli del nuovo mondo. Ciò nonostante, si può affermare che neppure in questo periodo le miniere sarde cessarono del tutto la loro attività, infatti esisteva pur sempre un piccolo mercato domestico, per lo meno per il piombo.
Nel 1720 l’isola passò a far parte dei possedimenti dei duchi di Savoia. Lo stato sabaudo dette nuovo impulso all’attività mineraria. Le nuove società, soprattutto quella di Mandel, introdussero diverse innovazioni tecnologiche, tra le quali l’impiego dell’esplosivo durante i lavori di estrazione.
Nel 1848 entrò pienamente in vigore in Sardegna una nuova legge mineraria, la quale prevedeva la separazione della proprietà del suolo da quella del sottosuolo. La nuova legge richiamò nell’isola numerosi imprenditori, in particolare liguri e piemontesi e nacquero le prime Società con lo scopo di sfruttare i promettenti giacimenti sardi. La maggior parte delle Società minerarie operanti in Sardegna aveva dunque capitale non sardo.
Dal 1865 in poi, al piombo e all’argento, che erano stati fino ad allora i minerali principalmente estratti nell’isola, si affiancò lo zinco. Infatti in quell’anno, nella miniera di Malfidano a Buggerru, furono rinvenute le “calamine” (silicati di zinco).
Intanto cresceva il malessere della Sardegna all’interno del nascente Stato italiano. Nell’aprile del 1868 il disagio sociale sfociò a Nuoro in gravi disordini. In seguito a questi fatti fu istituita una commissione parlamentare di inchiesta. Il deputato Quintino Sella, ingegnere minerario, svolse una relazione sulle condizioni dell’industria mineraria in Sardegna, pubblicata nel 1871, che costituisce un documento di straordinaria importanza. Dalla sua relazione emergeva la crescente importanza dell’industria mineraria sarda nell’ambito dell’economia italiana. Nel 1868-69, nelle miniere sarde, erano impiegati 9.171 addetti, quasi il triplo rispetto a quelli del 1860. Nel 1870 i permessi di ricerca, che alla fine del 1861 erano 83, salirono a 420 e le concessioni da 16 a 32. Il minerale prodotto passò dalle 9380 tonnellate del 1860 alle 127.925 tonnellate del 1868-69, ed il suo valore quintuplicò in quegli stessi anni. Dato il basso livello di istruzione e di preparazione tecnica delle maestranze sarde, anche la maggior parte della manodopera qualificata impiegata nelle miniere proveniva dal continente.
La maggior parte delle volte la condotta delle società minerarie che operarono nell’isola fu improntata a criteri che possono essere tranquillamente definiti colonialistici; infatti, molto spesso esse si limitavano a sfruttare le parti più ricche dei filoni che coltivavano, trasferendo poi fuori dalla Sardegna il minerale estratto che veniva trattato in impianti posti sul continente. Gli ingenti proventi derivanti dallo sfruttamento delle miniere sarde non venivano poi reinvestiti in loco se non per agevolare l’attività dell’impresa. Il 4 settembre 1904, durante uno sciopero dei minatori di Buggerru, tre di loro furono uccisi dall’esercito. Ne seguì il primo sciopero generale mai riuscito in Italia. Durante il periodo fascista (1922-1943) cominciò lo sfruttamento dell’enorme giacimento carbonifero del Sulcis. La città mineraria di Carbonia venne creata e inaugurata nel 1938.
Nel 1949 lunghi scioperi nel settore metallifero portarono ad una terribile sconfitta dei minatori, che dovettero rinunciare ad essere rappresentati dai sindacati. Le società ne approfittarono, in particolar modo la francese Pertusola (gruppo Penarroya), che aveva il controllo delle miniere più importanti della Sardegna, tra cui quella di San Giovanni. I diritti di rappresentanza sindacale furono riconquistati solo nel 1960, dopo altri lunghi mesi di sciopero. Nel 1969 la Pertusola lasciò la Sardegna. Tutte le miniere finirono sotto il controllo di un’azienda pubblica, che tentò di rilanciare il settore. Ma la crisi irreversibile dell’industria mineraria in Europa era già cominciata.

Negli anni ’80 e ’90, le miniere sarde chiusero una dopo l’altra. La miniera di San Giovanni fu occupata dai minatori che richiedevano delle prospettive di lavoro. Ma la decisione di chiudere era già definitiva.
Attualmente, resta in attività solo la miniera di carbone di Nuraxi Figus, il cui futuro è legato ad un complesso piano energetico, che però sembra non voler mai decollare. La miniera d’oro a cielo aperto di Furtei, aperta 15 anni fa, è stata chiusa, dopo aver avvelenato il territorio col cianuro. A Silius c’è una miniera di fluorite, chiusa da 4 anni, che potrebbe avere un futuro, ma che non riesce ad essere redditizia. A Olmedo, nel nord dell’isola, c’è una piccola miniera di bauxite, in cui lavorano una quindicina di minatori.

Brève histoire minière de Sardaigne

L’histoire de l’exploitation des minerais en Sardaigne, et donc le travail dans les mines, remonte à des temps très lointains. Les commerçants et les explorateurs avaient l’habitude de fréquenter les côtes de l’île, attirés par les richesses du sous-sol sarde. La longue histoire minière de Sardaigne commence vraisemblablement autour du VIe millénaire av. J.-C. avec l’extraction de l’obsidienne sur le Mont Arci au centre-ouest de l’île. Le Mont Arci fut l’un des plus importants centres méditerranéens d’extraction de cette roche volcanique. Des traces d’au moins 70 centres miniers et environ 160 infrastructures stables ou temporaires ont été trouvées dans cette région, depuis lesquels l’obsidienne était transportée au sud de la France et au nord de l’Italie.
La position géographique de l’île, et surtout son patrimoine minier, attirèrent entre les XIVe et VIIIe siècles av. J.-C. les commerçants phéniciens, qui furent progressivement remplacés par les Carthaginois au VIe siècle av. J.-C. Tous les deux exploitèrent de manière intense les richesses minières, surtout dans l’Iglesiente, où des traces d’excavations et des déchets de fusion attribuables à cette période ont été retrouvés.
La Sardaigne devint province de la République romaine en 226 av. J.-C. L’activité minière augmenta énormément sous les Romains, surtout lorsqu’il s’agissait des gisements de plomb et d’argent. La République romaine avait adopté l’argent comme masse monétaire en 269 av. J.-C., tandis que le plomb était omniprésent dans la vie civile, étant utilisé dans la production de beaucoup de produits, allant de la vaisselle aux conduites d’eau. La Sardaigne était la troisième plus grande région sous domination romaine par quantité de métaux produits, après l’Espagne et la Grande-Bretagne. La production minière pendant la domination romaine est estimée à environ 600 000 tonnes de plomb et 1 000 tonnes d’argent. L’activité minière des Romains ne se limita pas au bassin de l’Iglesiente. Le système d’extraction des minerais consistait, à l’époque romaine, à faire des puits verticaux qui pouvaient aller au-delà de cent mètres de profondeur. Le travail de ces puits, mené avec des outils manuels simples et parfois du feu, fut entrepris d’abord par des mineurs libres, dits metallari, puis, à partir de 190 av. J.-C. environ, par des esclaves et des prisonniers, ces derniers dits “damnati ad effondienda metalla”. La production minière sarde diminua donc considérablement à la fin de l’époque romaine.

A la suite de la chute de l’Empire romain d’occident, l’île tomba sous domination byzantine, sous laquelle la production minière et l’activité métallurgique enregistrèrent une certaine renaissance. L’argent redevint l’un des principaux produits d’exportation de la Sardaigne.
Depuis 1087 le royaume de Pise devient prédominant sur tout le territoire sarde. Cette période pisane est très bien documentée en matière d’histoire minière. Il fut essentiel l’essor et le développement de Villa di Chiesa, l’actuel Iglesias. Les pisans reprennent le travail des Romains en ouvrant de nombreux puits et en redécouvrant les anciens. L’intense activité dans les mines, ainsi que dans la vie politique, économique et sociale, fut réglée par une série de lois réunies dans un codex subdivisé en quatre tomes appelé le Breve di Villa di Chiesa.
Pise perd ses domaines sardes en 1326 en faveur de la couronne du Royaume d’Aragon. L’activité minière, très réduite par rapport à la période pisane, vit un déclin continu sous la domination aragonaise et éventuellement espagnole ; la Sardaigne, autrefois l’une des plus importantes régions du monde en matière d’extraction d’argent, se voit contrainte d’importer le métal précieux depuis les possessions espagnoles du Nouveau Monde. L’industrie minière sarde ne fut pas toutefois détruite ; elle tournait encore pour le petit marché domestique, notamment en ce qui concerne le plomb.

En 1720, comme conséquence du traité de Londres, l’île passe sous contrôle de la Maison de Savoie. Le royaume donna un nouvel élan à l’activité minière. Les nouvelles sociétés, surtout celle de Mandel, introduisent diverses innovations technologiques, dont l’utilisation des explosifs lors de l’extraction. Une nouvelle loi minière entra pleinement en vigueur sur l’île en 1848 et facilita l’octroi des concessions minières et attira de nombreux entrepreneurs, en particulier liguriens et piémontais. La majorité des sociétés minières opérant sur le territoire sarde était donc de capital non sarde. C’est à partir de 1865 que le zinc s’ajouta à la liste des principaux minerais extraits, les autres étant le plomb et l’argent. En fait, de la calamine (hémimorphite, ou silicate de zinc) fut trouvée dans les mines de Malfidano à Buggerru.

Entre-temps, les malheurs de la Sardaigne au sein du nouvel état italien augmentèrent. Le malaise social conduit à de graves désordres à Nuoro en avril 1868. Une commission parlementaire d’enquête fut instituée peu après cet évènement. Le député piémontais Quintino Sella, ingénieur minier, publia un rapport sur l’état de l’industrie minière sarde en 1871, œuvre qui constitue un document d’une extraordinaire importance. Sella mit en évidence l’importance croissante de l’industrie minière sarde dans l’économie italienne. Les années 1868-1869 virent travailler 9171 employés dans les mines sardes, quasiment le triple qu’en 1860. En 1870 les permis de prospections, qui n’étaient qu’au nombre de 83 en 1861, augmentèrent à 420, et les concessions de 16 à 32. Les minerais ainsi produits passèrent de 9379,8 tonnes en 1860 à 127 924,6 en 1868-1869, et leur valeur tripla durant ces mêmes années. Étant donné le bas niveau d’instruction et de préparation technique des sardes, même une grande partie de la main d’œuvre provenait du continent.
La plupart du temps, les sociétés minières opérant sur l’île prirent des attitudes qu’on peut aujourd’hui définir colonialistes ; ils se limitèrent souvent à exploiter les parties les plus riches de leurs mines, transférant ensuite les minerais extraits sur le continent pour y être traités. Les énormes profits ainsi faits ne furent pas réinvestis sur place, si ce n’est que pour faciliter les activités des entreprises. Le 4 septembre 1904, pendant une grève des mineurs de Buggerru, trois d’entre eux sont tués par l’armée. Il en suit la première grève générale réussie en Italie.
Pendant la période fasciste (1922-1943) commence l’exploitation de l’énorme gisement de charbon dans le Sulcis. La ville minière de Carbonia, pas loin d’Iglesias, est créée et inaugurée en 1938.
En 1949 des très longues grèves dans le secteur métallifère portent à un terrible échec pour les mineurs, qui finalement doivent renoncer au droit d’être représentés par des syndicats. Les sociétés en profitent, en premier lieu la française Pertusola (groupe Penarroya), qui avait le contrôle des plus importantes mines de Sardaigne, dont San Giovanni. Ces droits ne furent reconquis qu’en 1960, après des mois de grève. En 1969 Pertusola quitte la Sardaigne. Toutes les mines vont être sous le contrôle d’une entreprise publique, qui essaye de relancer le secteur. Mais la crise irréversible de l’industrie minière en Europe est déjà commencée.

Dans les années ’80 et ’90, les mines sardes ferment les unes après les autres. La mine de San Giovanni est occupée par les mineurs qui voudraient des perspectives de travail. Mais la décision de fermer est définitive.

Actuellement, il ne reste en activité que la mine de charbon de Nuraxi Figus, dont le futur est lié à un très complexe plan énergétique, qui semble ne vouloir jamais démarrer. La mine d’or à ciel ouvert de Furtei, ouverte il y a 15 ans, a été fermée, après avoir empoisonné le territoire au cyanure. A Silius il y a une mine de fluorite, fermée depuis 4 ans, qui pourrait avoir un futur, mais elle n’arrive pas à être rentable. A Olmedo, dans le nord de l’île, il y a une petite mine de bauxite, une quinzaine de mineurs y travaillent.

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